Storia
Dal Libro “LE FAMIGLIE E I MESTIERI – 28 Storie di famiglie con il mestiere nel sangue” di Renzo Francescotti edizioni U.C.T. Trento
“BATTONO IL FERRO DA 250 ANNI : I FILIPPI
Da due secoli e mezzo, da sette generazioni, i Filippi battono sull’incudine per plasmare il ferro. Cominciò nel 1700 Domenico, che era di Vigolo Baselga; andò avanti suo figlio Leonardo, che che si trasferì a Cadine, in località Bacandi, con il maglio azionato dall’acqua del Vela e la “lòra” (il mantice in cui l’acqua cadendo su una pietra appuntita, sprigiona una corrente d’ossigeno che viene incanalata a ravvivare il fuoco a carbone della fucina) tuttora perfettamente conservata. Mentre Leonardo continuava il lavoro di “ferar” di suo padre, Angelo suo fratello impiantava una segheria nell’edificio accanto all’officina da fabbro e, nella stessa costruzione, l’altro fratello, Felice, apriva un mulino.
Questo avveniva nel 1836, come risulta dagli antichi documenti di famiglia, gelosamente conservati. La casa dove trovarono spazio la segheria e il mulino risulta venduta da un Antonio Segata di Sopramonte. Così le acque del torrente Vela, dopo aver messo in moto le ruote a pala dei fratelli Filippi, fornivano energia alle antiche officine d’epoca almeno clesiana, del Bus de Vela (ora spianate dalle ruspe per lasciar posto alla nuova e discussa strada) per azionare poi le officine della frazione Vela, tuttora esistenti, nei pressi di Trento, e gettarsi infine nell’Adige a monte del Ponte San Giorgio.
Dopo Leonardo andò avanti a sudare picchiando il maglio il figlio Settimo, poi Sergio coi figli Oreste e Settimo. Ma Settimo morì nel 1932, di tifo, a 38 anni, quando suo figlio Giulio aveva quattro anni. Così Giulio, ancora da “bocia” cominciò a lavorare nell’officina, imparando il mestiere dello zio Oreste.
“Costruivamo ogni genere di attrezzo – narra Giulio che lavora da fabbro da mezzo secolo. – Gli aratri nei due tipi fondamentali, “piof” e “pioveta” (l’uno che rivolta la zolla, l’altro che apre il solco, ovvero il vomere e il coltro); costruivamo erpici, riparavamo carri, specialmente gli assali e i cerchioni; facevamo ogni genere di attrezzo da taglio, asce, mannaie, roncole; e poi zappe di vario tipo, picconi, mazze, punte e così via. Un grosso lavoro ci dava la ferratura dei buoi. Venivano da tutti i paesi vicini; c’era un gran consumo di ferri da parte degli animali che dovevano arrampicarsi fino in cima al Bondone per portare giù il fieno, la legna, lo strame. Si lavorava sino al sabato notte. Ma mio zio Oreste, praticamente, non riposava neanche la domenica. Partiva di buon mattino con lo zaino carico di attrezzi nuovi o riparati. Arrivava a piedi sino a Sopramonte dove ascoltava la messa. In chiesa si faceva notare: doveva distribuire gli attrezzi e riscuotere i crediti. Gli attrezzi erano facilmente distribuiti ma riscuotere i crediti era un’altra cosa!” “Ne veden en domenega…” gli dicevano. Lui aveva il suo grosso quaderno dei crediti, ma prima di tirare una croce sopra il credito (era il modo di significare “saldato”) bisognava quasi sempre aspettare la fine della stagione, in autunno. Allora i contadini vendevano il vitello, il maiale, le patate, il frumento, e finalmente potevano saldare i debiti col fabbro. Mio zio però non si smontava nei suoi viaggi domenicali, sempre a piedi: proseguiva per Baselga del Bondone, Vigolo Baselga, arrivava a Terlago. Arrivava la sera con lo zaino vuoto, cantando, su di giri. Di soldi non ne aveva quasi mai. In compenso era molto allegro…”
Tra le carte dei Filippi è conservato un libro mastro : scorrerlo è una occasione di straordinario interesse. Ne emergono – in un linguaggio che è un affascinante impasto di lingua, dialetto, gergo dei fabbri, lessico familiare – straordinari squarci di vita apesana, di civiltà artigiano-contadina, di “archeologia industriale”.
Leggiamo alcune note del 1916, in piena Grande Guerra; scritte da Sergio Filippi, nonno dell’attuale titolare dell’azienda, Giulio: “Giliot Emilio Cainelli – per feratura di un mulo C. 2,16 – per molatura ferri della paglia C. 2 – Mezzo litro di vino bevuto dai suoi uomini medesimo giorno c. 2,2 – per spizzatura di un zappone delle borre C. 2,1”. I “ferri della paglia” erano le lame della trinciaforaggi a mano. Lo “zappone delle borre” è l’attrezzo usato per artigliare i tronchi. Quanto al mezzo litro bevuto “dai suoi uomini medesimo giorno” si trattava evidentemente degli uomini del “Giliot” che si erano scolati un mezzo litro. Siccome la fucina era lungo la vecchia strada che portava a Sopramonte, fungeva anche da osteria.
Nonno Sergio che aveva il “travài” (l’incastellatura per ferrare gli animali) nei pressi della bottega di fabbro, ne costruì un altro lungo la statale, nei pressi dell’odierno albergo Posta (che allora non c’era). E siccome a ferrare gli animali col ferro e i chiodi roventi viene sete, sia al fabbro che ai suoi aiutanti, nonno Sergio aveva scavato una buca nei pressi del “travài” dove al fresco stavano le bottiglie di vino o birra. Naturalmente, ai suoi aiutanti, che erano i padroni o accompagnatori dell’ animale, bue o, raramente, cavallo o mulo, faceva pagare la bevuta. Quella buca per tenere al fresco le bottiglie finì col diventare un’osteria, costruita dall’altra parte della strada: è l’odierno “Bar Sergio” che ha il nome del nonno, fabbro nonché “oste-pioniere”.
Ma leggiamo qualche altra nota, sempre del 1916: “Antonio Fedrizzi – Bòcio – arrangiata piantola martello e una manara. C. 12”. Per chi non lo sapesse